Amicizia e militanza: vita di Tina Pizzardo

Il nome di Battistina Pizzardo, chiamata da tutti Tina, è ancora oggi associato a quello di Cesare Pavese in un misto di superficialità e sintesi storica: Tina Pizzardo? Ah sì, una delle donne di Pavese.

È invece corretto, oltre che doveroso, restituire alla sua memoria la grandezza della sua persona e l’eccezionalità della sua vita, leggerne l’autobiografia può in tal senso rivelarsi illuminante. Senza pensarci due volte (il Mulino, 1996) è il racconto uscito postumo – sette anni dopo la morte di Tina – in cui si consegna ai lettori con verità ed ironia, narrando per capitoli l’essenza della sua vita: non c’è tutta la vita intera, dentro a questo libro, ma il succo della sua vitalità, della sua allegria spavalda, così spudorata e irrefrenabile da superare ogni limite fisico e morale.

È stata una donna libera Tina che, dopo l’esperienza del collegio da orfana di madre e poi del carcere come prigioniera politica, ha affrontato i suoi dolori rincorrendo una libertà che alle donne era (ed è, spesso, ancora oggi) preclusa. Ha creduto di poter manifestare la propria intelligenza così come poteva manifestare la propria femminilità, ma non era così. Anche all’interno del partito comunista, accanto ai compagni che condividevano i suoi stessi ideali, era trattata come una donna avvenente, quei compagni per cui il partito aveva sempre ragione e non erano in grado di avere una loro onestà intellettuale, tale da permettergli di giudicare senza etichette.

Altiero Spinelli, l’unico uomo che lei abbia mai amato, la usa come messaggera prima e come amante ad attenderlo fuori dal carcere poi, senza reputarla degna di argomentazioni intellettuali. Dal carcere le dice cosa studiare, cosa leggere, a lei che era laureata in matematica e curiosa lettrice, tale da rendersi conto che «i nostri pochi incontri sono sempre stati un sottoprodotto della sua attività di partito» e che quando lui la vuole con sé a Milano, in realtà è per renderla «la solita moglie-serva di un compagno»; perché Tina si rende conto presto che le donne nel partito non sono altro che manovalanza, a loro si chiede fede cieca e spirito di sacrificio, non di essere protagoniste della lotta.

Insomma, l’uomo che più adorava negli anni più difficili della sua esistenza, non solo non l’ha mai amata davvero ma, cosa per lei comprensibilmente ancora più grave, non nutriva per lei alcuna stima. Rivelandosi in fondo come un uomo rozzo e incolto, che la vedeva solo come un oggetto del desiderio, Spinelli protagonista delle sue memorie si rivela un uomo egoista e ottuso.

L’intelligenza di Tina si fa largo, tra queste pagine, in due direzioni: da un lato nel far credere agli uomini quello che volevano (l’essere frivola, scanzonata, vanitosa, senza ambizione); dall’altro nel profondo senso di delusione per gli uomini incontrati nella sua vita, capaci di starla a sentire ma non di appagare la sua fame intellettuale, non in grado di essere determinati nell’attuazione di quella libertà che andavano proclamando.

Nelle prime pagine Tina Pizzardo parla di una “vita sprecata” per cui non ha rimpianti, perché si mostra lucida nel raccontare sia le sciocchezze da ragazza civettuola, sia il coraggio con cui non si è mai abbassata al regime fascista durante il ventennio. Ha saputo essere femminista senza dimenticare di essere una donna, senza imitare gli uomini per ottenere una parità che quelli non le concedevano; lo è stata stringendo legami in carcere con donne diverse, mostrando un sincero interesse per le vite degli altri, cercando di rivendicare il suo ruolo e la sua formazione.

Come ci ricorda Sandra Petrignani nella prefazione, e poi sua nuora Vanna Lorenzoni Rieser nella postfazione, con caparbietà Tina ha cercato di non adeguarsi ai precetti imposti dalla società, ma come moltissime donne ha fallito quel tentativo di emancipazione. Il destino di infelicità che attende le donne, nel vederle iscritte dalla nascita su precisi binari, ha avuto la meglio.

È dura con sé stessa Tina, non risparmia giudizi spietati sulle scelte del passato, ma non quando giunge – sul finale – a darci la sua versione del rapporto con Cesare Pavese: lei che ha rincorso tutta la vita l’amicizia, sperando di poter praticare così quella parità, è affranta dallo struggimento di Cesarino, come lei lo chiamava, per un amore che lo dilania come un ragazzino spaesato, un amore di cui lui solo ha immaginato i contorni. Dalla versione di Tina Pizzardo emerge il suo errore di leggerezza nel ricercare continuamente, e per molti anni, la compagnia di Pavese che reputa la persona più intelligente incontrata, ma che così si illude di avere con lei un futuro. Ma, al tempo stesso, è consapevole di non avergli mai fatto credere ci fosse altro dall’amicizia tra loro, e che anche lui in fondo non la vede davvero per il suo valore.

Da queste pagine non c’è da prendere le difese dell’uno o dell’altra, bensì il comprendere come forse sia vero che, dal giorno del suicidio, di Pavese è stata compiuta una falsificazione a favore del personaggio e a scapito dell’uomo. In questo c’è da essere riconoscenti alla Pizzardo per l’onestà critica, anche polemica, che intende sottrarsi parzialmente al senso di colpa che le è stato ingiustamente inflitto.

Francesca Attiani