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Un viaggio nel tempo, per il tempo di un caffè; il romanzo di Toshikazu Kawaguchi

Nel filone della letteratura giapponese contemporanea, oltre al celebre nome di Satoshi Yagisawa, premio letterario Chiyoda, troviamo anche Toshikazu Kawaguchi con il suo romanzo “Finchè il caffè è caldo”, edito in Italia, da Garzanti. La celebrità dello scrittore viene evidenziata in Italia a Marzo del 2020, quando il romanzo diventa un best seller e scala tutte le claffiche tanto quanto il secondo volume pubblicato lo scorso anno e il più recente titolo “Ci vediamo per un caffè”, nelle librerie da Febbraio 2023.

Il primo volume di Toshikazu Kawaguchi è un romanzo abbastanza breve, adatto a chi apprezza molto la narrativa o a chi sta passando un momento critico con il temuto blocco del lettore; in meno di 200 pagine l’autore riesce a condensare una storia capace di far riflettere e di emozionare. I principali temi affrontati sono relativi alla sfera del rimpianto e del dolore per la mancanza e l’assenza di una persona cara.
Il romanzo si suddivide in quattro sezioni che ripercorrono le storie di altrettanti personaggi che hanno in comune la volontà e il desiderio di porre rimedio ai loro errori passati.
Come sarà loro possibile? Attraverso una macchina del tempo in grado di riportarli in un momento del loro passato per cercare di risolverlo e chiedere scusa ai propri cari.

Il luogo che permette tutto questo è proprio una caffetteria di Tokyo molto particolare, raccontata da mille leggende secondo le quali, per il tempo di un caffè fumante (lascio scoprire a voi perchè), è possibile rivivere un momento del proprio passato.
Le quattro sezioni in cui è diviso il romanzo, si concentrano sui personaggi di Hirai, Fumiko, Kotake e Kei. Ognuno di loro sceglie di recarsi alla caffetteria sperando di poter rivivere un momento toccante e doloroso della propria vita e di risolvere il rimorso e il senso di colpa che li attanaglia.

Questo è un romanzo che si concentra molto sull’amore oltre che sulla possibilità di riflettere sul passato, considerando le proprie scelte e le conseguenze che ne sono derivate. E’ però anche una riflessione sul presente, su quanto gli esseri umani siano a volte incapaci di fare i conti con le esperienze più drammatiche della vita soprattutto quando viene a mancare una persona alla quale si tiene più che a noi stessi.

Ciò che fa la differenza tra questo romanzo e altre narrazioni che hanno il “viaggio nel tempo” come filo conduttore, è proprio la particolare interpretazione del mezzo che permette il viaggio stesso; la caffetteria in cui è ambientata la storia ha una sedia che permette di viaggiare indietro nel tempo, ma ci sono regole precise da rispettare che lascio a voi scoprire.

La seduta e lo schienale erano foderati in tessuto verde-muschio, e d’un tratto Kōtake li guardò con occhi diversi. Notò che tutte le sedie erano in eccellenti condividere, neanche fossero nuove di zecca. Ma non so trattava solo delle sedie: l’intero caffè era immacolato. Se aveva aperto all’inizio del periodo Meiji, doveva essere in funzione da più di cent’anni. Eppure non c’era neanche un granello di polvere.

Una delle sensazioni più persistenti durante la lettura, è un costante senso di tensione, sia per la velocità con la quale i personaggi sono tenuti a viaggiare, sia per la forza nel racconto delle loro esperienze.
Infatti il punto di forza del romanzo è la capacità di esplorare emozioni complesse come il rimpianto e il senso di colpa.
La storia di ogni personaggio è toccante e straziante, in quanto si confronta con le conseguenze delle proprie azioni offredo loro tuttavia, una possibilità di redenzione.

Fumiko trasse un respiro profondo, cercò di calmare il battito del cuore e si strinse nell’angusto spazio tra la sedia e il tavolo. Nella sua testa era convinta che non appena avesse poggiato il sedere su quella sedia, si sarebbe ritrovata a una settimana prima, perciò il nervosismo e l’eccitazione erano alle stelle. Si sedette con una tale foga che per poco non rimbalzò di nuovo in piedi.

Da un punto di vista tecnico, la scrittura di Kawaguchi è semplice ma ben strutturata, risulta elegante ma senza alcuna pretesa e riesce ad evocare immagini molto soffuse, catturando a pieno l’atmosfera dell’ambientazione e le emozioni dei personaggi.
Si potrebbe comunque considerare la descrizione del viaggio nel tempo non perfettamente congegnata, così come le psicologie dei personaggi potrebbero apparire non completamente descritte ma nel complesso il romanzo può dirsi degno del successo che lo ha visto tanto protagonista in questi anni.

A cura di Giulia Pace

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Satoshi Yagisawa: I miei giorni alla libreria Morisaki

“Il mio soggiorno presso la libreria Morisaki durò dall’inizio dell’estate fino alla primavera.
Abitavo sommersa dai libri in una stanza al primo piano, un ambiente buio e angusto, umido, pervaso dall’odore di muffa tipico della carta vecchia.”

Così Takako, una giovane venticinquenne alle prese con la vita, descrive la libreria Morisaki, luogo che da decenni è gestito dalla sua famiglia. A prendersene cura è suo zio Satoru, un uomo buffo e gentile che riuscirà a scaldare il cuore della giovane e a farle ritrovare se stessa e i propri desideri.

Jinbōchō, il quartiere di sole librerie più grande al mondo, un luogo dalla magia unica che non riesce a non rapire per la sua bellezza. È qui che prende vita la storia di cui Satoshi Yagisawa, giovane promessa della letteratura giapponese,ci racconta nel suo romanzo d’esordio “I miei giorni alla libreria Morisaki”.

Una storia di quotidianità, fatta di piccoli gesti e piccole azioni che ci coinvolgono fin da subito perché riusciamo a sentirle come nostre. Il testo si apre con un momento di crisi che stravolge la stabilità di Takako, la quale si trasferirà da Tokyo -dove aveva un lavoro che non le dava più soddisfazione e la sua vita affettiva basata su una menzogna- alla libreria Morisaki, gestita da suo zio che personalmente la chiama per proporle ospitalità in cambio di un piccolo aiuto con l’attività. Takako, un po’ titubante, accetta e da qui la storia si apre a nuovi scenari e nuove possibilità.

“Le circostanze inattese ci aprono porte che neanche immaginavamo. Era proprio così che mi sentivo.
E infatti, da quel momento in poi, cominciai a leggere un libro dopo l’altro. Era come se la sete di lettura, da tempo sopita dentro di me, fosse esplosa all’improvviso.”

Dopo un periodo di prime incertezze e remore, Takako inizierà piano piano ad abituarsi alla sua nuova e diversa stabilità, conoscerà le persone più care a Satoku e crescerà i suoi rapporti interpersonali con tutti gli abitanti del quartiere e i clienti abituali della libreria. Anche il rapporto con lo zio, all’inizio poco confidenziale e un alquanto freddo, si aprirà come in un caloroso abbraccio consolatorio per entrambi. La magia più potente è quella che accade però attraverso la riscoperta del desiderio della lettura; i libri polverosi che le tengono compagnia saranno per Takako il nuovo punto di partenza per riscoprirsi e liberarsi dal passato vuoto e doloroso.

E allora la descrizione di questo piccolo mondo nel mondo, del quartiere di Jinbōchō, diventa la chiave narrativa e anche il tratto più appassionante di questo breve libro; in appena 150 pagine possiamo immaginarci di camminare tra i banchi con i libri scontati, le caffetterie, i piccoli luoghi di ritrovo e discussione. E non solo, perché la libreria Morisaki diventa molto più di un luogo fisico, è motivo di riscossa personale, la metafora di un percorso di vita che riguarda tutti coloro che ne fanno parte e che la vivono con quotidianità. Accettare se stessi, le proprie capacità e i propri desideri costruendo una vita ricca di relazioni sincere e d’affetto, questo è quello che più ci trasmettono i personaggi di questo bestseller pubblicato da Feltrinelli e vincitore del prestigioso premio letterario Chiyoda.

«Però, sai: non è sempre facile capire cosa si vuole dalla vita. Anzi, forse lo si capisce a poco a poco, e ci vuole una vita intera».

A cura di Giulia Pace

BiancoLibro, 6 libri sotto l’albero di Bianco Critico

“Un ‘libbro’ con due b sarà soltanto un libro più pesante degli altri, o un libro sbagliato, o un libro specialissimo?”

Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Giulio Einaudi Editore, 1973

Se esistesse un libro gustosissimo avrebbe la sofficità di una coccola, un velo di mistero, una manciata abbondante di sorpresa, quel quanto basta di avventura miscelando il tutto con tanta fantasia. E poi?

In occasione della fine dell’anno abbiamo pensato di incuriosirvi con delle proposte di lettura suggerite dal team di Bianco Critico e da amiche molto speciali, ospiti di nostre interviste e legate alla community social.

In ordine alfabetico, i contributi a cura di: Delia Demarco, Alessandra Favazzo, Eleonora Miccolis, Alessandra Nardelli, Giulia Pace e Sara Pietrantoni.

Buone letture!

Delia Demarco: La strana storia dell’isola Panorama, testo originale di Edogawa Ranpo, adattamento/disegni di Suehiro Maruo, Coconino Press – Fandango, 2011

“Già, i miei pensieri sono folli fantasticherie. Però queste folli fantasticherie... Risplendono dentro di me.” (pp.  30-31)

La strana storia dell’isola Panorama è un manga decisamente insolito e spiazzante. È l’adattamento di un racconto di Edogawa Ranpo, l’Edgar Allan Poe giapponese, vissuto nella prima metà del ’900 e considerato il padre fondatore del moderno romanzo giallo, gotico e fantastico del Sol Levante.

Tutto ha inizio con uno scambio d’identità, scegliendo l’intrigante tema del doppio, per proseguire sulla scia di un sogno utopico (omaggio a Le Terre di Arnheim di Allan Poe) che avrà come protagonista Hirosuke Hitomi, scrittore spiantato di belle speranze e mediocre autore di romanzi fantastici. La notizia della morte del ricco imprenditore Genzaburo Komoda, vecchio compagno di classe di Hitomi al quale assomiglia come una goccia d’acqua, sarà per il protagonista il segno del destino verso la realizzazione del suo folle piano: sostituirsi al defunto Komoda attraverso la simulazione di una morte apparente (come nel racconto La sepoltura prematura di Poe), “resuscitare” e impossessarsi del suo ingente patrimonio.

Il rischioso escamotage avrà successo, Hitomi potrà finalmente realizzare il suo sogno: costruire il Paradiso terrestre su di un’isola di pescatori (“Una volta costruito sembrerebbe il paradiso terrestre, il paese della bellezza. È il mio pensiero costante da tempo”). L’isola Panorama sarà ben presto costellata di paesaggi maestosi, di cascate meravigliose, di macchinari fantasiosi, di animali esotici e di acquari sotterranei. Paesaggi che faranno da sfondo a feste decadenti e trame segrete in un tripudio di riferimenti artistici e culturali.

L’attenta rappresentazione di numerose opere sia italiane (dal Colosso dell’Appenino di Villa Demidoff alla Fontana del Bacchino del Giardino di Boboli fino all’Orco delle favole del Sacro Bosco di Bomarzo) sia straniere (la citazione visiva di scenari tratti da Il Giardino delle delizie di Bosch e riproduzioni di quadri moderni come La lussuria di Courbet, L’isola dei morti di Böcklin e la celebre Ophelia di Millais) sono una gioia per gli occhi e una piacevole sorpresa per tutti gli studiosi d’arte.

Inoltre, il forte potere visionario dei disegni di Maruo – che per quest’opera ha vinto il prestigioso Premio culturale Osamu Tezuka, riconoscimento che consacra ogni anno i migliori manga – aderisce come un guanto alla storia di Ranpo amplificandola con tratti vertiginosi, allucinati e sensuali. Il suo stile è una felice unione tra l’illustrazione tradizionale giapponese Ukyo-e (soprattutto le opere di Tsukioka Yoshitoshi), le litografie Muzan-e e la tradizione del movimento Ero Guro

Nell’ubriacatura della china di Suehiro Maruo si aprono fratture di riflessione che conducono oltre l’edonismo estetizzante della grafica e del racconto. Nel suo erotismo grottesco, infatti, si insidiano temi come: il timore della morte (“Se non posso vivere a lungo, voglio lasciare un segno del mio passaggio in questa vita” dirà Hitomi/Komoda a un suo collaboratore), la ricerca dell’identità e del piacere (e qui i meravigliosi disegni di Maruo strizzano l’occhio all’immaginario delle stampe erotiche di Utamaro e al cinema di Oshima di Ecco… L’impero dei sensi), la paura della mediocrità e i confini dell’ambizione.

È un’opera perturbante che deve gran parte del suo fascino al ritratto psicologico di Hirosuke Hitomi: un personaggio tanto complesso quanto ambiguo, capace di idee sublimi ma, allo stesso tempo, autore di azioni dalla morale discutibile in un continuo gioco di opposti tra la bellezza e l’orrore, tra la vita e la morte.

Il suo mondo perfetto si rivelerà ben presto fasullo e posticcio: ogni paesaggio creato è, in realtà, un sogno che copre un incubo dalla natura violenta.

Tsukioka Yoshitoshi, Luna crescente sul Monte Nanping dalla serie di xilografie “Cento aspetti della luna” (1885-1892), 1885, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art

Alessandra Favazzo: Cipì di Mario Lodi e i suoi ragazzi, Giulio Einaudi Editore – Gli struzzi, 1977

Con Cipì di Mario Lodi ho imparato a leggere. È stato il libro che la maestra della prima elementare, la maestra Carla, scelse per aiutarci nei nostri primi passi tra le parole.

Era il 1990 e ancora non sapevo quanto tutto questo sarebbe diventato importante per me.

In casa mia c’erano pochissimi libri, tutti sistemati negli scaffali più alti, e venivano aperti e sfogliati molto raramente. Questi gesti sono diventati parte del mio vissuto quotidiano solo molto dopo, e grazie alla scuola e all’università (pubblica).

Per molti anni poi ho dimenticato le vicende di Cipì, dei suoi genitori, di Passerì: le ho riscoperte solo da adulta, quando ho conosciuto la storia di Mario Lodi e della scuola di Vho di Piadena (ne avevamo parlato in classe mentre leggevamo il libro? Credo di sì, ma proprio non ricordo). E comunque, da allora, continuo a odiare leggere ad alta voce.

“Ad un tratto Cipì udì un grido: era la sua mamma che l’aveva riconosciuto:  Mio piccolo Cipì, vola, vieni qui – e apriva le ali per insegnargli a volare. – Vola, vola, Cipì, vola dalla tua Mamì!

– Oh Mamì, mi fa male qui – pigolò Cipì cercando di strappare la cordicella che gli faceva sanguinare la zampa.

A quel punto, i bambini litigarono perché volevano tutti e due tener l’uccello: il più alto lo afferrò e gli staccò il filo dalla zampa.

– Ahi! Ahi! – gridò Cipì e, stufo di essere maltrattato, beccò la manaccia che lo stringeva, così forte che il becco scricchiolò. 

– Ahi! – urlò il bambino e allargò un po’ le dita: allora Cipì saltò fuori dalla mano e scappò via.

– Forza Cipì, vola! Vola sin qui! – gridava la sua mamma dal tetto – vola dalla tua Mamì.

I ragazzi lo rincorrevano, ma Cipì non si lasciò prendere, correva e gridava: – Mamì, Mamì, adesso vengo – e presa una lunga rincorsa, frullò le ali e volò, volò… e arrivò da Mamì.

– Oh, mio Cipì, finalmente sei al sicuro – disse la mamma entrando nel nido.

Ma Cipì disse: – Io nel nido non ci vengo, vero Mamì?

La mamma sorrise e disse tristemente: – No, tu sei già grande, tu sai già volare.”

Copertina della prima edizione, 1977, Giulio Einaudi Editore – Gli struzzi

Eleonora Miccolis : Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua di Yiyun Li, traduzione di Laura Noulian, NN Editore, 2018

Ci sono momenti della vita in cui non si è nel pieno delle proprie forze. Per usare un’espressione del mondo fotografico, non si è “a fuoco”. È come se guardandosi allo specchio non si vedesse il proprio volto riflesso, quanto piuttosto la propria nuca. O addirittura il retro dello stesso specchio. Ciò non può che essere l’incipit di qualcosa di spaventoso, che porta lentamente al declino fisico e, soprattutto, mentale. Ed è proprio questo di cui parla l’autrice di questo libro: un viaggio in quel paese nebbioso e asfissiante chiamato “depressione”, intervallato da riflessioni sul proprio passato, sulle letture condotte e sulla funzione della scrittura.

In un mélange di memoir, storia, autobiografia e diario segreto, Yiyun Li non esita a raccontare ogni dettaglio della sua vita, anche quello più doloroso: una giovinezza vissuta all’ombra della strage di Piazza Tienanmen, i valori in cui credeva sfumati con uno schiocco di dita, l’egoismo e la natura anaffettiva di sua madre contrapposta alla dolcezza e al fatalismo di suo padre, i tentativi di suicido e i ricoveri in ospedale. La carriera spianata di immunologa in Cina e la “nuova vita” negli Stati Uniti sotto una nuova veste: quella di scrittrice; ma soprattutto, la rinuncia totale e assoluta alla lingua cinese per abbracciare la lingua inglese, questo nuovo ventre che accoglierà Yiyun donandole al contempo un nuovo volto. Un affresco della vita vista attraverso la lente della sofferenza – che ha caratterizzato il suo percorso – e commentata attraverso una acutezza ineccepibile e un realismo tanto crudele da risultare disarmante. Insieme a lei tanti amici: Søren Kierkegaard, Katherine Mansfield, Elizabeth Bowen, Philip Larkin e William Trevor, a cui deve tutta la sua carriera di scrittrice.

“Per stare fra la gente non occorre forse sentirsi a proprio agio con gli altri, e in pace con sé stessi? Ma una mente inquieta non conosce altra strada per arrivare alla pace se non quella che ci allontana da casa, e questo ci espone di continuo alla fobia degli attaccamenti, così come scrivere rivela il nostro impulso a raggomitolarci e nasconderci. Ogni parola che diciamo, ogni parola che scriviamo, ogni sogno e paura e speranza e disperazione che riveliamo agli altri e a noi stessi… tutto finisce come i pulcini che non si lasciano rinfilare nel guscio.” (p. 51)

L’incontro con questo libro è frutto di quel (a mio avviso) meraviglioso fenomeno chiamato “serendipità”: la scoperta casuale di un libro, tanto sorprendente quanto rivelatore, in un periodo caotico e circondato da vari orizzonti. Ed è così che mi son sentita sia durante la lettura sia alla fine della stessa: sorpresa e illuminata da una nuova luce. Non posso nascondere di aver vissuto molte delle sensazioni descritte dall’autrice, sottolineando per puro senso di appartenenza la maggior parte dei passaggi di questo libro, con tanto di note scritte a margine.

Per quest’opera dal significato criptico ho scelto un dipinto altrettanto criptico e ipnotico: La reproduction interdite (La riproduzione vietata) di René Magritte. Il senso di smarrimento, d’illusione e di sorpresa espressi nel libro li ritrovo anche in questa tela, e come il mondo dell’arte, anche “la terra delle storie” (per citare Li) può essere lo spazio per creare qualcosa di nuovo, di azzardato, ma anche potente e capace di trafiggere qualunque dimensione spazio-temporale.

René Magritte, La reproduction interdite, 1937, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen

Alessandra Nardelli: La Nazione delle Piante di Stefano Mancuso, Editori Laterza, 2019

“Un pianeta verde per la vegetazione, bianco per le nuvole e blu per l’acqua. Questi tre colori che sono la firma del nostro pianeta, per un motivo o per un altro, non esisterebbero senza le piante. Sono loro a rendere la Terra ciò che conosciamo. Senza piante, il nostro pianeta assomiglierebbe molto alle immagini che abbiamo di Marte o di Venere di una sterile palla di roccia.”

Da qualche anno ho cominciato a prendermi cura di alcune piantine, silenziose compagne che mi osservano seduta alla scrivania, immersa nello studio, nei miei pensieri, nelle difficoltà di tutti i giorni. E quindi, un po’ forse anche per riconoscenza, mi sono approcciata a queste pagine con il desiderio di comprendere meglio le mie piccole amiche.

Quello che Stefano Mancuso racconta non è semplicemente una generica storia delle piante e del loro ruolo fondamentale sul nostro pianeta, quanto piuttosto una calorosa esortazione a convivere in maniera più responsabile e cosciente all’interno del mondo che ci circonda.

Ogni capitolo è dedicato a un articolo, facente riferimento a un’immaginaria Carta dei Diritti delle Piante, “una costituzione scritta dalle piante e in vece delle piante, da chi non conosce nulla di materie giuridiche”, come la descrive giocosamente Mancuso. In effetti, potremmo dire, proprio di un gioco serio si tratta, con il quale fare esercizio di consapevolezza e tutela nei confronti di un patrimonio inestimabile.

Procedendo nella lettura, ciò che emerge è la necessità di ricostituzione di una comunità globale e biologica, che tenga conto non soltanto della specie umana ma di tutti gli esseri viventi, rispettando il reciproco scambio tra le singole comunità naturali nella prospettiva di un progresso universale.

Una necessità resa sempre più urgente dall’inesorabile avanzamento del cambiamento climatico, con il quale siamo già costretti a confrontarci e i cui effetti – naturali, sociali e politici – si dimostrano di anno in anno la norma di un processo attualmente in corso.

“La maggior parte dei problemi che affliggono l’umanità oggi, anche se apparentemente lontani, sono collegati al pericolo ambientale e rappresentano soltanto gli innocui prodromi di ciò che verrà se non l’affronteremo con la dovuta fermezza ed efficienza.”

Una lettura assolutamente consigliata per tutti coloro che nel loro passaggio vogliano lasciare un segno d’affetto per questa nostra casa comune, chiamata Terra.

Édouard Vuillard, Sotto gli Alberi (da I Giardini Pubblici), 1894, Cleveland, Cleveland Museum of Art

Giulia Pace: Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato (1937) di J.R.R. Tolkien, traduzione di Caterina Ciufferi, illustrazioni di Jemima Catlin, Bompiani, 2013

Il mondo delle fiabe e delle avventure di personaggi mitologici e magici, ci accompagna fin dai primi di anni di vita, quando, piccoli e ancora incapaci di poter leggere da soli, i nostri genitori – o chi per loro – ci avvicinano ai più svariati scenari fantastici attraverso racconti inventati o presi da quei polverosi libri di favole che chissà dove conserviamo ora.

Ebbene, Lo Hobbit nasce proprio così, come una fiaba per bambini che J.R.R. Tolkien pubblica per la prima volta nel 1937. E da lì un successo che non si è più arrestato, una storia che racconta l’origine di un simpatico, quanto avventuroso viaggio, di uno dei personaggi simbolo della letteratura di Tolkien. 

Illustrazione di Jemima Catlin

In un buco nella terra viveva uno hobbit. Non era un buco brutto, sudicio e umido, pieno di vermi e intriso di puzza e nemmeno un buco spoglio, arido e secco, senza niente su cui sedersi né da mangiare: era un buco-hobbit, vale a dire comodo.” 

La storia è quella di Bilbo Baggins, hobbit della Contea che abita in una graziosa dimora, il buco-baggins, che custodisce e mantiene con estrema cura e affetto. La sua tranquillità e calma viene d’un tratto sconvolta quando il potente mago Gandalf il Grigio, lo invita a prender parte ad una spedizione in soccorso di tredici nani, al servizio di Thorin Scudodiquercia, discendente del Re della Montagna. Da una parte il docile Bilbo è assai intrigato da questa grande avventura che gli si prospetta davanti, dall’altra non vorrebbe però abbandonare la sua comoda quotidianità. 

Illustrazione di Jemima Catlin

Sui monti le foreste ondeggeranno, ondeggeranno al sol l’erba lucenti, le ricchezze a cascate scenderanno e i fiumi diverranno ori splendenti. I ruscelli felici scorreranno, i laghi brilleran nella campagna e dolori e tristezza svaniranno al ritorno del Re della Montagna.”

L’indole impavida avrà la migliore e da qui la vicenda sarà scossa da gesta eroiche da parte dei nani e dalla silenziosa ma astuta furbizia di Bilbo, lo scassinatore, che avrà l’ardito compito di affrontare il possente drago Smaug il Terribile, impadronitosi della Montagna Solitaria.

Illustrazione di Jemima Catlin

Molti i personaggi terrificanti e pericolosi che la Compagnia incontrerà lungo il suo cammino: orchi feroci, troll giganti, ragni e non per ultimo il misterioso Gollum, contro il quale Bilbo tenterà di salvarsi la vita a suon di indovinelli. 

Lo stile di Tolkien sa rendere la lettura molto piacevole perché descrive con minuzia ogni particolare che serve visualizzare e immaginare ma non scade mai nella banalità senza condurre alla noia, con eleganza e anche un pizzico di comica ironia.

Quelle del libro sono atmosfere non eccessivamente cupe e spaventose che ricalcano perfettamente gli scenari e l’immaginario fantasy sia di una favola per bambini che di un breve romanzo epico per adulti.

A parlare delle cose belle e dei giorni lieti si fa in fretta, e non è che interessi molto ascoltare; invece da cose gravose, emozionanti o addirittura spaventose si può trarre una buona storia, o comunque un lungo racconto.”

Mi sento di voler condividere proprio questo libro perché per me è sempre stata una storia in cui potersi rifugiare in tutti quei momenti della vita adulta che ci spingono lontano dal proprio bimbo interiore, curioso e desideroso di fare quante più esperienze possibili, mosso solo dal proprio desiderio e da un po’di sana incoscienza. 

Fortunatamente il mondo di Tolkien non tramonta mai e anzi, non smette di essere fonte di ispirazione per ogni lettore che vi si approcci.

Sara Pietrantoni: Un incantevole aprile (1922) di Elizabeth von Arnim, traduzione di Sabina Terziani, Fazi Editore, 2017

Confesso di aver pensato a lungo a quale libro consigliare, e confesso soprattutto una mia debolezza: con questo libro volevo impressionare. Volevo trovare un titolo di quelli che nessuno conosce, uno di quei libri che ti cambiano la vita una volta letti, che fosse un’illuminazione, un pugno nello stomaco e insieme una carezza.

Ho pensato e ripensato a tutti i libri letti nell’ultimo periodo, e poi l’occhio mi è caduto su un titolo che ho molto amato e che forse non è nulla di tutto questo. Di certo vi arriva fuori stagione, per me però è un balsamo per l’anima: si tratta di Un incantevole aprile, di Elizabeth von Arnim, pubblicato da Fazi Editore: rientra appieno in quella categoria che qualcuno ha brillantemente definito “libro coccola”.

Siamo nella grigia e piovosa Londra degli anni Venti del Novecento quando due signore insoddisfatte e un poco malinconiche, Mrs Wilkins e Mrs Arbuthnot, decidono qualcosa che all’inizio fa tremare loro i polsi al solo pensiero: prendere in affitto per il solo mese di aprile di una villa a san Salvatore, paesino ligure immerso nella natura, il luogo più adatto per dimenticare tutto e tutti. E soprattutto dimenticare la piovosa e grigia primavera inglese. 

Tutto ebbe inizio a Londra in un club per signore, un pomeriggio di febbraio – per nulla confortevole il club, malinconico il pomeriggio -, quando Mrs Wilkins, arrivata da Hampstead per fare acquisti, dopo aver pranzato al club prese il Times da un tavolo dalla sala fumatori e, dando un’occhiata distratta alla colonna degli annunci personali, vide questa inserzione:

Per gli estimatori dei glicini e del sole. Piccolo castello medievale italiano sul Mediterraneo affittasi ammobiliato per il mese di aprile.” 

Ma da subito le cose non vanno come progettato: al duo di timorate signore si aggiungono l’anziana Mrs Fisher e la giovane – e bellissima – ereditiera Lady Caroline. E poi arrivano i mariti di Mrs Wilkins e Mrs Arbuthnot e anche il proprietario del castello: ma nonostante tutto, o forse proprio perché i piani iniziali vengono presto scombinati e niente va come previsto le quattro donne riescono a ritrovare la pace perduta, l’equilibrio, la voglia di sorridere e lasciarsi andare. E quel mese di aprile, in mezzo ai glicini e con la vista del mare, diventa davvero incantevole.

Lei, Elizabeth von Arnim, nasce come Mary Annette Beauchamp in Australia, nel 1866, ma vive a Londra, a Berlino, in Polonia e negli Stati Uniti. Sposata due volte (ma le andrà sempre male), mamma di cinque figli, innamorata dello scrittore Herbert George Wells, Elizabeth ha scritto ventuno romanzi.

Un incantevole aprile è quello che preferisco ma tutti, venati dalla stessa sottile, delicata ironia, sono da leggere al momento del bisogno. 

Silvestro Lega, Lettura romantica, 1870 ca, Collezione privata

A cura di Maria Baffigi

Amicizia e militanza: vita di Tina Pizzardo

Il nome di Battistina Pizzardo, chiamata da tutti Tina, è ancora oggi associato a quello di Cesare Pavese in un misto di superficialità e sintesi storica: Tina Pizzardo? Ah sì, una delle donne di Pavese.

È invece corretto, oltre che doveroso, restituire alla sua memoria la grandezza della sua persona e l’eccezionalità della sua vita, leggerne l’autobiografia può in tal senso rivelarsi illuminante. Senza pensarci due volte (il Mulino, 1996) è il racconto uscito postumo – sette anni dopo la morte di Tina – in cui si consegna ai lettori con verità ed ironia, narrando per capitoli l’essenza della sua vita: non c’è tutta la vita intera, dentro a questo libro, ma il succo della sua vitalità, della sua allegria spavalda, così spudorata e irrefrenabile da superare ogni limite fisico e morale.

È stata una donna libera Tina che, dopo l’esperienza del collegio da orfana di madre e poi del carcere come prigioniera politica, ha affrontato i suoi dolori rincorrendo una libertà che alle donne era (ed è, spesso, ancora oggi) preclusa. Ha creduto di poter manifestare la propria intelligenza così come poteva manifestare la propria femminilità, ma non era così. Anche all’interno del partito comunista, accanto ai compagni che condividevano i suoi stessi ideali, era trattata come una donna avvenente, quei compagni per cui il partito aveva sempre ragione e non erano in grado di avere una loro onestà intellettuale, tale da permettergli di giudicare senza etichette.

Altiero Spinelli, l’unico uomo che lei abbia mai amato, la usa come messaggera prima e come amante ad attenderlo fuori dal carcere poi, senza reputarla degna di argomentazioni intellettuali. Dal carcere le dice cosa studiare, cosa leggere, a lei che era laureata in matematica e curiosa lettrice, tale da rendersi conto che «i nostri pochi incontri sono sempre stati un sottoprodotto della sua attività di partito» e che quando lui la vuole con sé a Milano, in realtà è per renderla «la solita moglie-serva di un compagno»; perché Tina si rende conto presto che le donne nel partito non sono altro che manovalanza, a loro si chiede fede cieca e spirito di sacrificio, non di essere protagoniste della lotta.

Insomma, l’uomo che più adorava negli anni più difficili della sua esistenza, non solo non l’ha mai amata davvero ma, cosa per lei comprensibilmente ancora più grave, non nutriva per lei alcuna stima. Rivelandosi in fondo come un uomo rozzo e incolto, che la vedeva solo come un oggetto del desiderio, Spinelli protagonista delle sue memorie si rivela un uomo egoista e ottuso.

L’intelligenza di Tina si fa largo, tra queste pagine, in due direzioni: da un lato nel far credere agli uomini quello che volevano (l’essere frivola, scanzonata, vanitosa, senza ambizione); dall’altro nel profondo senso di delusione per gli uomini incontrati nella sua vita, capaci di starla a sentire ma non di appagare la sua fame intellettuale, non in grado di essere determinati nell’attuazione di quella libertà che andavano proclamando.

Nelle prime pagine Tina Pizzardo parla di una “vita sprecata” per cui non ha rimpianti, perché si mostra lucida nel raccontare sia le sciocchezze da ragazza civettuola, sia il coraggio con cui non si è mai abbassata al regime fascista durante il ventennio. Ha saputo essere femminista senza dimenticare di essere una donna, senza imitare gli uomini per ottenere una parità che quelli non le concedevano; lo è stata stringendo legami in carcere con donne diverse, mostrando un sincero interesse per le vite degli altri, cercando di rivendicare il suo ruolo e la sua formazione.

Come ci ricorda Sandra Petrignani nella prefazione, e poi sua nuora Vanna Lorenzoni Rieser nella postfazione, con caparbietà Tina ha cercato di non adeguarsi ai precetti imposti dalla società, ma come moltissime donne ha fallito quel tentativo di emancipazione. Il destino di infelicità che attende le donne, nel vederle iscritte dalla nascita su precisi binari, ha avuto la meglio.

È dura con sé stessa Tina, non risparmia giudizi spietati sulle scelte del passato, ma non quando giunge – sul finale – a darci la sua versione del rapporto con Cesare Pavese: lei che ha rincorso tutta la vita l’amicizia, sperando di poter praticare così quella parità, è affranta dallo struggimento di Cesarino, come lei lo chiamava, per un amore che lo dilania come un ragazzino spaesato, un amore di cui lui solo ha immaginato i contorni. Dalla versione di Tina Pizzardo emerge il suo errore di leggerezza nel ricercare continuamente, e per molti anni, la compagnia di Pavese che reputa la persona più intelligente incontrata, ma che così si illude di avere con lei un futuro. Ma, al tempo stesso, è consapevole di non avergli mai fatto credere ci fosse altro dall’amicizia tra loro, e che anche lui in fondo non la vede davvero per il suo valore.

Da queste pagine non c’è da prendere le difese dell’uno o dell’altra, bensì il comprendere come forse sia vero che, dal giorno del suicidio, di Pavese è stata compiuta una falsificazione a favore del personaggio e a scapito dell’uomo. In questo c’è da essere riconoscenti alla Pizzardo per l’onestà critica, anche polemica, che intende sottrarsi parzialmente al senso di colpa che le è stato ingiustamente inflitto.

Francesca Attiani

Elephi, un gatto sulla Quinta Strada

Con garbo e acume, Jean Stafford ci consegna qui un libro per bambini godibilissimo anche dagli adulti (come accade sempre con quelli scritti bene): Elephi – Un gatto molto intelligente, prima edizione 1962/Adelphi, 2022, nella traduzione di Livia Signorini e le magnifiche illustrazioni di Erik Blegvad.

La storia non è affatto semplice o semplicistica, come si potrebbe immaginare, poiché siamo nella mente di un gatto: Elephi Pelephi Famoso Gatto un Tempo Gattino – questo il suo nome completo – ha un’intelligenza oltre misura, trascorre il tempo in un appartamento newyorkese escogitando piani per rompere la noia (insieme a qualche oggetto), mentre si chiede perché non ha un amico con cui giocare.

Una scrittura iper descrittiva, che permette di immaginare perfettamente lo spazio e i pensieri, rende fluida questa lettura che ci sembra di vedere. Di sicuro a una bambina o a un bambino potrebbe venire il desiderio di disegnare le malefatte di questo simpatico felino.

Volutamente non accenniamo alla storia, che merita lo stupore e l’ilarità del piccolo lettore, ma va sottolineata la deliziosa maestria del narrare le voci di animali e oggetti che tanto ricorda i primi film d’animazione Disney, per incanto e buoni sentimenti.

Un’idea per trascorrere questo Halloween in compagnia di un gatto indimenticabile che, come tutti i gatti (doveva saperlo bene l’autrice) non ama prendere ordini da nessuno.

Francesca Attiani

Mia e la voragine, di Diana Ligorio

È ormai assodato, e da molto tempo, che le favole possano entrare a tutti gli effetti nella letteratura: c’è stato un tempo in cui lo sguardo dei bambini, tra gioco e sogno, veniva utilizzato per servire semplici morali o una tiepida buona condotta. La differenza la fa la scrittura, come sempre, e la capacità di raccontare un sentire in modo autentico e non per questo in modo realistico.

In questo romanzo – Mia e la voragine di Diana Ligorio (Terrarossa Edizioni, 2022) – la voce narrante è di una bambina tra i dieci e gli undici anni, Mia, che ci trascina in un mondo sentito e immaginato, allo stesso tempo, pieno di giochi e stimoli come solo i bambini sanno trovare. Il racconto si svolge nella casa di campagna, persa in un paesino, dove Mia e la madre tornano ogni estate: la prima per giocare malvolentieri con i suoi coetanei del posto, la seconda per fare da pediatra ai piccoli compaesani.

L’età di Mia è quella della vera ribellione, dello sguardo che coglie ogni gesto o mancanza nell’altro, l’età in cui si tende a mettere in fila le informazioni avute dai grandi per rispondere agli interrogativi quotidiani: ad esempio la mamma di Mia non parla molto con la figlia, non ha dialogo con lei e non le parla mai del papà che non c’è più.

La scelta di Diana Ligorio è quella di raccontare il punto di vista di una bambina speciale, molto matura ma non per questo adulta, in grado di sentire la mancanza di un abbraccio ma anche di vedere una sirena in una donna pazza che vive nel bosco.

E questo racconto ci arriva per oggetti, per scandire lo sguardo dei bambini che sugli oggetti si posa: Mia ci presenta la mamma attraverso un fazzoletto che tiene sempre con sé (regalo del padre); ci racconta la sua terra attraverso i fichi d’india; il rapporto con la madre attraverso la gomma del mezzo sul quale viaggiava il padre quando ebbe l’incidente, che ruzzolò fino alla loro abitazione (diventata altalena in grado di dondolare il suo dolore); ci presenta sé stessa attraverso la sua gamba strana, che non la aiuta a camminare ma, talvolta, la trascina nel senso opposto (una malattia definita dalla madre come “sottrazione dell’appoggio”, risposta non sufficiente a spiegarle la sua diversità); e, infine, la voragine che simboleggia la sua voglia di vita e di fuga.

La voragine, che dà il titolo al romanzo, è un luogo fisico e dell’anima. Contempla il buio e vuoto, la paura di cadere, ma anche una forza attrattiva che spinge a superare coraggiosamente i propri limiti.

È un esordio centrato e profondo, quello di Diana Ligorio, che supera lo stereotipo più difficile da estirpare: l’idea che i pensieri dei bambini siano privi di complessità.

Francesca Attiani

Scrivere nel Medioevo: la lezione di Alessandro Barbero

C’è un libretto dello storico Alessandro Barbero, ripubblicato di recente (Donne, Madonne, Mercanti e Cavalieri – Laterza), in grado di raccontare Sei storie medievali per parlarci dell’umanità tutta.

Chi conosce l’autore sa, e apprezza, la sua innata capacità di accendere la luce sulla Storia senza chiuderla nel suo guscio conservativo – è frequente la percezione di una distanza temporale e di immedesimazione con i secoli che ci precedono, anche in chi la Storia la studia – portandoci a comprendere la concretezza umana di figure divenute spesso col tempo simboli vuoti.

L’approccio di Barbero è interessante perché collega questi tre uomini e queste tre donne, diversissimi tra loro per vite e scelte, attraverso il tema della scrittura. Se conosciamo oggi molti aspetti della loro vita (e di conseguenza della vita medievale) lo si deve al fatto che queste persone hanno scritto libri o lasciato testimonianza scritta.

Questo è un saggio sull’importanza dei documenti, non esiste Storia senza prove documentarie, senza l’analisi della veridicità di quelle, senza confronti sulle fonti. È un saggio di metodo: potrebbe essere usato dagli studenti per capire in quale modo approcciare alla studio storico. È l’occasione mai scontata, l’ennesima per chi si occupa di questo ambito, per sottolineare che la Storia si può attraversare solo con una modalità scientifica. Non ci si inventa nulla e le opinioni si azzerano.

L’autore sceglie sei figure dal grande carisma: sono personalità prive di timori reverenziali e di formalismo vacuo, ci raccontano di un’epoca priva di ipocrisie e retoriche di potere, dove si andava al nocciolo delle cose. Per quanto si creda il Medioevo un’epoca di forte spiritualità, di credenze e oscurità, questo saggio dimostra l’esatto contrario: in questi secoli (specialmente quelli del tardo Medioevo) si chiamano le cose con il loro nome, non c’è spiritualità senza materialità, c’è fiducia nel futuro e si sente di aver fatto grandi progressi.

Il frate francescano Salimbene da Parma e la scrittrice italiana alla corte di Francia Christine de Pizan sono i due personaggi più colti del libro: il primo nel Duecento e la seconda tra Trecento e Quattrocento, sono coloro che hanno imparato a leggere e scrivere possedendo libri grazie alla prosperità delle loro famiglie, e sono consapevoli della grande fortuna che hanno avuto. Salimbene conosce a memoria la Bibbia che cita nella sue prediche pubbliche (i libri si imparavano a memoria, non potendoli leggere di frequente), parla e scrive in latino, e questa grande cultura gli fa avere uno sguardo disincantato e libero. Christine è una scrittrice, sa di esserlo, ha successo grazie a ciò che scrive, e questo le permette di approfondire il tema del ruolo delle donne nella società, per fare pulizia di luoghi comuni e vuote romanticherie letterarie. Crede fermamente che senza le donne non ci sarebbe stato progresso in nessun ambito, e crede nella loro forza e determinazione sociale.

Dino Compagni e Caterina da Siena sono i due personaggi politici del saggio di Barbero: tra Duecento e Trecento hanno avuto un peso specifico nelle decisioni. Il primo è un mercante che decide di scrivere un libro sui suoi anni nella Firenze comunale, un testo in volgare, per raccontare il marcio della politica, gli interessi personali, le faide tra famiglie nobili in cui a rimetterci è la povera gente, una «gara d’uffici» ovvero di poltrone, unico fine. La seconda è una santa celebre, mistica dal carattere molto forte: Caterina riesce a imporsi col Papa nei terribili anni avignonesi, pretende di essere ascoltata in quanto intercessore con la divinità. Le sue lettere sono durissime e mai diplomatiche, non le interessa mediare ma impartire ordini e questo la rende una donna che viene temuta ma ascoltata.

Poi ci sono due cavalieri: Jean de Joinville e Giovanna D’Arco. Il primo nel Duecento e la seconda nel Quattrocento, sono stati al servizio della corona francese; Jean ha scritto un libro sulla persona più importante della sua vita ovvero il re santo Luigi IX, ma in realtà ci consegna un libro di sue memorie personali che delineano il suo acume e la sua ironia. Giovanna, all’epoca Jeanne la Pucelle, la conosciamo tutti, spesso in modo superficiale: è l’unica personalità analfabeta tra quelle scelte da Barbero, le sue lettere pubbliche deve dettarle. Ma in tanti hanno scritto su di lei, anche Christine de Pizan. Tra tutti questi uomini e donne valorosi, è anche la più misteriosa e moderna: quando apprende dalla divinità che le parla di dover salvare la Francia guidando le truppe, si trasforma da contadina in condottiera.

La colpa che venne imputata, più di tutte, a Giovanna D’Arco fu quella di vestirsi e comportarsi da uomo. Finisce sul rogo perché travestita, durante l’esecuzione mostreranno alla folla che è una donna per giustificare l’uccisione della santa. Le donne raccontate dal professor Barbero, pensano spesso che se fossero uomini sarebbe tutto più semplice, addirittura una sogna di esserlo. Giovanna diviene il simbolo della non accettazione della donna che si sostituisce al valore maschile, che lo incarna, che sa impartire ordini.

L’importanza data alla scrittura, alla parola, era allora più forte di quella che attribuiamo oggi: probabilmente queste sei personalità medievali ci insegnano molto proprio sulla libertà; e l’autore sembra dirci che noi abbiamo molto da imparare e da leggere ancora, di strada da fare, per capire soltanto quella eccezionalità medievale.

Francesca Attiani

Brodskij e Venezia: Fondamenta degli Incurabili

Ci sono luoghi, spesso attraversati per la prima volta, in grado di farci sentire un’appartenenza, ci riannodano a una geografia che non sapevamo di possedere già. Non si tratta di una sensazione di mero benessere o di gioia, poiché questo riappropriarsi di una parte di sé può prevedere una componente di forte spaesamento. Probabilmente il medesimo che sovviene quando si conosce qualcuno che sembra di ri–conoscere, abitante silenzioso della nostra memoria ancestrale.

Nel 1972 Iosif Brodskij giunge per la prima volta a Venezia.

Per il poeta russo in quel momento qualcosa si rompe. Nulla sarà come prima. È davanti al suo luogo, un luogo che non ha mai percorso ma che lo aspettava.

Il viaggiatore anonimo, che per sua natura, è “facile bersaglio dell’oblio”, giunge a Venezia senza sapere l’esperienza che lo attende. Per Brodskij – che destinerà questa esperienza ad una ripetizione annuale – la città lagunare è fin dal primo istante odore di felicità, ovvero rievocazione di un ricordo attraverso l’olfatto, frantumazione dell’equilibrio apparente che si respirava fino a quel momento. L’odore delle alghe marine ghiacciate della laguna in inverno, è ciò che compromette la sua esistenza stabilendo un prima e un dopo.

In questo odore c’è un tempo. È la nebbia a misurarlo, stabilendo i momenti per leggere, per invadere le finestre aperte nella stagione fredda, una nebbia “carica di rintocchi e composta […] di caffè e di preghiere”: quell’atmosfera sacra in cui si ritrova anche chi non crede. L’abbraccio bizantino che da secoli unisce Stato e Chiesa, qui. Venezia è la cattedrale in cui iniziare a credere.

Brodskij è riuscito a capire questa città, ma solo rifiutandone il romanzo che se ne fa da secoli, quello di vuota cartolina romantica, guardando al montaggio più che alla storia: Venezia è il non luogo, ma anche tutti i luoghi che siamo, è perfetta per perdersi ma, anche, per smarrirsi.

La lusinga e l’inganno costante, dove c’è “l’insinuazione come principio ispiratore dell’urbanistica”, rendono questo spazio un altrove, una visione non afferrabile mai completamente dall’occhio.

Sì, perché è l’occhio l’organo più importante in questa città. Dove finalmente la superficie e il contenuto hanno pari valore; dove lo specchio dell’acqua svela noi e il nostro sguardo e, allo stesso tempo, ci nasconde ogni abissale verità. Brodskij parla di stile e sostanza, una bellezza senza costo, una visione che può contenere una donna che cammina così come una lesena di marmo.

L’occhio, periscopio del nostro corpo sopraffatto, è finalmente abitante della luce. Perché a Venezia la luce scolpisce e dipinge, ridimensionando addirittura il momento del tramonto: poiché crepuscolare è ogni pietra, placarsi di ogni ricerca e di ogni fuga. Rifugio di ogni senso di colpa.

Brodskij è a Venezia (oggi come allora) per riposare lo sguardo dalle brutture del mondo, e non poteva che restituirci questo suo ritorno in un libretto a metà tra il diario poetico e il saggio critico: Fondamenta degli Incurabili (Adelphi, 1991) è un viaggio ironico ed erotico, sagace e intimo, che svela la città nell’unico modo possibile, parlando letteralmente del proprio sentire. Perché sono i sensi a vivere questo spazio d’eccezione che sembra non esistere ma, al tempo stesso, ci ricorda spietatamente la finitudine della nostra esistenza.

Non è il luogo delle malinconie, però, ma della vita senza ostilità. L’ospedale dove curare il dissapore con noi stessi. Alle Fondamenta degli Incurabili, dove le imbarcazioni hanno rubato il manico ai violini, ci si può perdonare anche di non essere nati qui.

Francesca Attiani

Le madri non dormono mai: il cantico degli ultimi di Lorenzo Marone

L’ultimo libro di Lorenzo Marone, Le madri non dormono mai (Einaudi, 2022), non racconta una storia, non è il romanzo inteso nella sua forma classica di tempi e spazi abitati da personaggi che crescono con lo scorrere delle pagine.

In questo libro c’è una narrazione documentaria, fatta per nomi: i nomi dei protagonisti che danno titolo ai brevi capitoli, si susseguono come ombre senza corpo. Abitanti di un carcere speciale, sono stati tolti dal mondo – per colpa o per mestiere – e collocati in uno spazio senza luogo.

Siamo in uno degli istituti di detenzione ICAM, dove le donne incarcerate possono tenere i figli piccoli con loro; non si tratta di un carcere come gli altri, poiché mantenendo uniti i figli con le madri (com’è giusto che sia) costringe però quelli a scontare la pena di una colpa che non li riguarda. L’innocenza, quella vera che hanno tutti i bambini per nascita, viene dissolta dalla condizione di figli di un detenuto.

Uno spazio in cui si cerca di non far capire ai piccoli lo stato di privazione nel quale si trovano: le celle sono come minuscoli appartamenti con il letto e la cucina, gestiti in semiautonomia dalle mamme; i piccoli giocano in cortile tutti insieme e hanno la possibilità di crescere come tanti fratelli; alcune guardie penitenziarie diventano educatori e assumono un ruolo fondamentale per la convivenza tra queste insolite famiglie; la psicologa e le associazioni esterne si pongono come contatti necessari per imparare la fiducia.

Sì, perché il libro di Lorenzo Marone ci racconta proprio questo, l’esercizio complesso e delicatissimo del fidarsi – e dell’affidarsi – che è proprio di tutte le vite, quelle libere e quelle limitate: lo sforzo che intende fare l’autore con questa fotografia del reale, sta proprio nel mettere in parallelo le vite opposte, mostrandoci come la libertà sia una condizione interiore e solo marginalmente fisica; quanto si faccia fatica a chiedere aiuto e a fuggire dalla propria condizione di infelicità anche nel mondo esterno (in parte come ci ha narrato il film di Leonardo Di Costanzo, Ariaferma, la struggente profondità del rapporto umano detenuto-guardia).

Imparare la fiducia. Ma come si fa? Soprattutto se la vita non ti ha dato nulla, se sei cresciuto in un rione senza futuro – non a caso una dei protagonisti in un colloquio con la psicologa le sottolinea come la speranza (e anche la fiducia) risulti facile ai ricchi, a chi sta senza pensieri – e dunque fa fatica anche solo a piangere davanti agli altri, perché in perenne guerra, in una battaglia contro tutti, in cui chi mostra le proprie fragilità ha perso.

Proprio per queste ragioni, tra le pagine di questo libro, si scopre che la detenzione può salvare, che può aprire ad una svolta soprattutto nelle madri che in quei figli sfortunati hanno la loro unica possibilità di rivincita. Diego, Melina, Jennifer, Gambo, Adamu sono alcuni dei piccoli ospiti della struttura, di cui non seguiamo le sorti (di questo va fatto merito all’autore, perché così facendo sceglie di non chiudere con lieti fine retorici), gli adulti devono alla maturità anticipata di questi moltissimo.

Ma questa lettura permette anche un’altra riflessione: si è madri in tanti modi, molti dei quali non contemplano un figlio. È madre sì Miriam, mamma di Diego, ma lo è anche Greta, la psicologa del centro, che mette cura verso l’altro in uno scambio generoso di fiducia. Loro due sono le anime del libro. Due madri.

Anche questo libro, come ci ha abituato la letteratura di Marone, è mosso da un’onda di positività, di bellezza, che spesso l’autore collega al ruolo della donna. Viene da credere che la fiducia, il dare/darsi senza paura, possa migliorare le cose, anche le peggiori. È un salto nel buio, ma necessario: “c’ammà fidà”.

Francesca Attiani

Una storia, tante storie, intervista a enciclopediadelledonne.it

«Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo. E quando la vidi così, stampata, la parola dall’aspro suono mi parve d’un tratto acquistare intera la sua significazione, designarmi veramente un ideale nuovo.»

da Una donna (1906) di Sibilla Aleramo, Feltrinelli 1999

Nomi e cognomi. Ritratti di donne che superano i confini temporali e geografici consultabili on-line sotto forma di un’enciclopedia in continuo aggiornamento.

Le voci dell’enciclopediadelledonne.it sono pubblicate sotto una licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 4.0: tutti i contenuti possono essere ridistribuiti liberamente se vengono attribuiti ai rispettivi autori e appartenenti al progetto e non utilizzati a scopo commerciale.

Le curatrici-fondatrici sono Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli con un primo gruppo di madrine illustri (Mariateresa Fumagalli, Sylvie Coyaud, Giuliana Chiaretti, Carla Stampa), e il contributo di tutte le autrici e autori che partecipano all’Impresa.

La nostra intervista a Rossana Di Fazio e a Margherita Marcheselli che ringraziamo per la cortesia e la disponibilità.

Radunare, illuminare, costruire e divulgare attraverso un’impresa collettiva la conoscenza di nomi e cognomi di donne che con le loro storie hanno fatto la Storia. Quando è nata e che cos’è enciclopediadelledonne.it?

Sono le parole che preferiamo per presentare il nostro progetto, i principi-base di ogni enciclopedia.

enciclopediadelledonne.it è nata l’8 marzo 2010: è l’unico progetto di questo genere in Italia e uno dei due o tre internazionali – quello tedesco di Fembio, ad esempio. 

Il nostro intento è dare spazio e visibilità a una ricerca storica molto intensa che non raggiunge mai il grande pubblico, e incoraggiarne altra: altro studio, altra ricerca, altre curiosità. Proprio per questo abbiamo avviato anche un’attività editoriale.

Oggi non mancano siti che propongono profili femminili, anche quando abbiamo cominciato c’era un tentativo di questo tipo, il sito di Anna Maria Crispino L’araba fenice, nel quale erano proposte diverse biografie eccellenti, pensato come una raccolta esemplare più che con un progetto sistematico.

Noi abbiamo voluto fare una cosa diversa, sistematica appunto e in progress, coerentemente con le opportunità che offre il web, che ci ha liberato dalla questione degli elenchi e delle gerarchie che condizionano i progetti cartacei all’origine. Popolare la rete di vite concrete, reali, di ogni tempo e paese. E oggi abbiamo l’onore di annoverare oltre 400 fra autrici e autori, e di aver pubblicato circa 1500 voci, un mare di biografie.

Era necessario secondo noi costruire una risorsa in rete in cui si potessero consultare percorsi femminili, perché non dimentichiamo che la soglia di ingresso alle donne – anche nelle enciclopedie “generaliste” – è molto alta. E come posso incontrare qualcuno che non conosco? enciclopediadelledonne.it rende questo incontro facile, possibile e auspicabile.

Tutte le voci biografiche da enciclopediadelledonne.it

Sfogliando on-line le voci biografiche un aspetto molto interessante è quello di venire a conoscenza di figure femminili oggi dimenticate. Qualche esempio da menzionare?

Eh sì, le donne tendono a sparire! La macchina dell’oblio è sempre molto efficiente. Esempi ce ne sono tanti.

Adelaide Ristori fu un’attrice celeberrima nell’Ottocento – in tutto il mondo! Anche noi ne abbiamo saputo l’esistenza grazie all’esperta di riferimento, la compianta Teresa Viziano, che l’ha portata nell’enciclopedia. Ma quante ce ne sono?! Musiciste, artiste, politiche: Cristina di Belgioioso che ora qualcuno conosce grazie al fatto che se ne è parlato, era celebre nella sua epoca per la sua attività di patriota e di editrice e autrice.

Bisogna riscrivere questi contesti, raccontare diversamente e non pensare che la presenza femminile sia un’eccezione, una variazione della storia o una novità. Bisogna studiare e sapere di non sapere.

Ma abbiamo anche un’altra missione: a noi interessano percorsi non illustri, cioè percorsi di vita documentati che raccontano la vita di tutti e momenti di storia che non è solo femminile. Operaie, ricamatrici, o balie portano nell’enciclopedia dei brani di vita che non ci sono in nessun libro di storia.

Voce Adelaide Ristori (autrice Teresa Viziano) da enciclopediadelledonne.it

Nella veste di casa editrice è di recente pubblicazione il volume Mappa femminile della città di Milano. Itinerari nel centro storico di Lorenza Minoli, con la collaborazione di Linda Bertella, una guida che propone cinque percorsi per raccontare una città delle donne attraverso le tracce delle memorie architettoniche. Qual è il contributo più prezioso a noi lasciato in eredità?

La mappa è frutto di un enorme lavoro e non ce n’è un’altra in cui troverete quello che c’è lì.

È una specie di enciclopedia a passeggio per la città e dimostra quello che sappiamo tutte e tutti: che le donne abitano questo mondo, le strade, le città, e sono parte integrante della storia e della vita. Sembra una tale ovvietà che ricordarlo sfiora l’assurdo, ma assurdo è vedere che quel lavoro di cancellazione è sistematico, quotidiano. La presenza femminile non si è limitata alle case, alle relazioni familiari, ma ha investito tutta la vita sociale e pubblica, e anche l’organizzazione sociale, molto, molto tempo fa.

Nella Mappa si mette in evidenza che la cattedrale, il Duomo, ha una iconografia fortemente femminile: la facciata è un’esaltazione delle donne dall’Antico Testamento sino a Maria bambina e Regina (la Madonnina).

Milano è la città della Scala, della moda, del design e dell’architettura ed ecco che nella guida finalmente si racconta delle tante ballerine, cantanti, stiliste, architette e designer e artigiane che hanno costruito la città e contribuito fortemente a farne quello che è.

Lorenza Minoli; Linda Bertella, Mappa femminile della città di Milano. Itinerari nel centro storico. Spazi, storie, architetture, figure, Enciclopedia delle donne 2022

Nella nostra società spesso gli uomini decidono per le donne: quanto c’è ancora bisogno di femminismo?

Crediamo che le nuove generazioni di ragazze abbiano molto chiaro che possono e devono decidere da sole. Il femminismo si è fatto strada in modi molto sotterranei e il contributo femminile alla vita pubblica è stato enorme, come dimostra l’enciclopedia con tantissimi ritratti di sindacaliste, ostetriche, avvocate.

Decidere è una responsabilità, che ti leva dalle trappole della protezione. La questione forse si potrebbe rovesciare: quanto abbiamo intenzione di sopportare ancora prima che questo connubio fatto di rispetto e diritti, di ascolto e attenzione, di libertà e amore si faccia finalmente strada? Quanto possiamo accettare che ignoranza e sessismo tengano banco nella vita delle persone?

Ma una volta che ci siamo fatte questa domanda salta fuori la radicalità del femminismo che chiede se siamo prontǝ a ribaltare una società fondata sul privilegio patriarcale: molto più che uguaglianza dei diritti, perché se i rapporti di potere sono quelli vigenti, il gioco a sottrarre autodeterminazione è continuo.

Abbiamo immaginato uno scaffale dei libri suggeriti dagli amici di Bianco Critico, un consiglio di lettura da parte di enciclopediadelledonne.it?

Suggeriamo tre libri da noi pubblicati: sono saggi piacevolissimi da leggere, divulgativi e documentati, pensati per il grande pubblico e non esclusivamente per un ambito accademico.

Il primo è di Vittoria Longoni ed è Madre natura. La dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco, e racconta della dialettica maschile-femminile nel mondo greco, e di come il patriarcato – che non è un dato di natura – porta nella storia la logica della guerra, del dominio sulla natura e sulle donne; le fonti che l’autrice fa parlare ci restituiscono il senso concreto di questa dialettica, e di un altro mondo possibile, presente negli inni e nei poemi.

Il secondo è Vietato Scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne di Joanna Russ, una celebre scrittrice americana che si è messa a studiare come sono state accolte le scritture di autrici che oggi riteniamo protagoniste della letteratura mondiale: Virginia Woolf, Emily Brontë e tante altre. È una occasione straordinaria per capire che nel tempo le strategie con cui si “ridimensiona” la scrittura femminile sono ricorrenti e feroci e animate esclusivamente da una sorta di riserva preliminare a credere che una donna possa aspirare a essere una buona scrittrice. È una lettura che vi farà riconoscere le trappole del sessismo, che non è mai benevolo. Ma per capirlo serve più cultura, più condivisa, più onestà intellettuale – più voglia di conoscere.

L’ultimo libro pubblicato, infine, speriamo che finisca in tutte le scuole superiori e le università: Corpo Mente di Sandra Plastina e Emilio Maria De Tommaso, racconta e fa parlare alcune filosofe che hanno scritto fra il Quattrocento e il Settecento, sconosciute eppure influenti nel proprio tempo, che scardinano proprio quel dualismo fra mente e corpo che ha pesato sulla libertà delle donne e sul riconoscimento delle loro facoltà intellettuali. È ora di conoscerle no?

Immagine in evidenza: collage, da sinistra in ordine Charlotte Salomon (dipinto di), Toni Morrison, Hedy Lamarr, Cristina Trivulzio di Belgioioso, Doris Lessing, Agatha Christie, Angela Davis, Giovanna d’Aragona

Maria Baffigi